Tutto scorre


28 dicembre 1894

Il conte Gegè teneva una fissa particolare per il Tevere e le sue sponde. Lo amava in ogni stagione: placido in primavera, sornione in estate, malinconico in autunno e accigliato nel gelo invernale. Lo amava in secca e in piena, pure quando pazziava e traboccava come il vino novello dalla botte, uscendo dal suo invaso e spandendo attorno a sé una melassa di fango e di malaria. Eh sì che dai tempi dei Romani antichi si sapeva bene che alcuni rioni della città andavano a finire sott’acqua ad ogni alluvione. Il Velabro era il primo, l’antica palude strappata con le unghie e con i denti alla signoria del Tevere dalla Cloaca Maxima. Poi l’acqua irrompeva nel campo Vaccino, tra le reliquie dei Fori, e giù in via Lata, saziando il Campo Marzio delle sue acque. Solo le alture dei colli, gloriosa memoria della città, rimanevano all’asciutto. Così gli abitanti erano ormai abituati a improvvisarsi gondolieri e a spostarsi da una parte all’altra della città con la barchetta.

Quando le acque si ritiravano, lasciando qualche zolla a disposizione di un piede ardimentoso, Gegè se ne partiva e stava ore a ritrarre il fiume che tornava riluttante nel suo alveo, e i riflessi di questa o quell’antichità nello specchio dell’acquitrinio.

Pure gli abitanti sortivano nuovamente dalle loro case, lenti e sospettosi come ‘e ciumachelle, mentre ‘e criature, tra mille schiamazzi, correvano libere a infangarsi le vesti e i piedi nei giochi ritrovati.

Bambini giocano al tempio di Ercole dopo l’esondazione

La macchina da presa del Conte era già lì all’alba – capisc’ a me – piantata sul treppiede come ‘na bandiera in terra vergine.

Quella volta, però, nel ‘70, il Tevere sciolse la sua bionda chioma con troppa foga. Piovve e piovve per giorni interi, che pareva o diluvio, annacquando ai Romani Vigilia e Natale. Ma come si dice, il peggio non è mai morto, e a S. Stefano all’acqua che veniva dall’alto si aggiunse quella che veniva dal basso: l’onda di piena del fiume si abbatté senza misericordia sulla città e i suoi abitanti, riversandosi nelle strade. Sarà che pure o Padreterno stava sfastidiato, col papa relegato in esilio nel suo palazzo, dacché Roma era divenuta capitale…chissà. Fatto sta che re Vittorio Emanuele in persona, da vecchia volpe qual era, si recò prontamente in città per portare il suo sostegno e il suo conforto alla popolazione. Viaggiando in treno da Firenze, tra mille peripezie, giunse a Termini alle quattro del mattino, insieme ad altri membri del Governo. Il Conte quella volta a Roma non era ancora tornato, ma io c’ero e gliene feci più volte il racconto quando a suo gusto Vossignoria mi interrogava. I governanti non s’accontentarono di una fuggevole visita di cortesia. Nossignore.

Constatando tanta desolazione, fecero il punto su un argomento spinoso: se il fiume avesse ancora diritto di esercitare il suo potere millenario di scrivere la storia della città, nel bene e nel male, storia alla quale i Romani da sempre si abbandonavano quasi fatalisticamente. Ma nel progettare la capitale del Regno d’Italia, si reputò il Caso elemento superato, indesiderato e dannoso, perciò il Tevere venne condannato senza appello alla imbrigliatura perenne.

Si mandarono a setacciare le chiese parrocchiali dei vari rioni, che aprissero i loro registri sulle nascite e sulle morti, e si prepararono le statistiche e le mappe sulla salubrità dell’aria: che tutti vedessero che piaga il fiume portava alla popolazione, specie a coloro – i disgraziati – che abitavano nelle zone più zozze e fetenti. Architetti e ingegneri all’unisono appuntirono le loro matite e progettarono rotoli di muraglie. E infine, a carte approvate con tanto di regio sigillo, giunsero loro, gli operai, e le sponde del fiume divennero un grande formicaio brulicante. Prima toccava prosciugare l’acqua, specie dov’era più fonda, camminando su zattere di pali, poi s’alzava il muraglione, concio dopo concio, alacremente.

A vederli crescere, parevano i bastioni di Castel Sant’Angelo. A monte si sbancava, e poi si livellava con la terra medesima, fino al livello del nuovo passeggio, il Lungotevere. Solo che alle spalle del fiume, palazzi, strade e porti, da sempre lì affacciati, rimasero come appesi fuori dal tempo. A qualcuno toccò in sorte la demolizione, ad altri l’oblio dietro il terrapieno. Ma a Roma tutta toccò vestire i panni a lutto della separazione dal Tevere, quasi una divinità – come m’insegnava Gegè – che all’origine dei tempi ne aveva segnato la nascita e il destino.

Tenevo questi pensieri, quella sera al tramonto, sulla sponda deserta, gli operari nelle taverne a rifarsi il sangue. “Vossignoria, accussì Roma non torna chìù”. Il conte, con gli occhi attenti sull’obiettivo: “Ciro, mon cher, guarda il fiume. Scorre sempre, non puoi arrestarlo. Tout est et n’est pas”.

Ma forse pure lui quella sera teneva il groppo in gola, perché se è vero che, da gentiluomo qual era, si rifece o palazz ‘e famiglia ‘ngopp o Lungotevere della Roma nuova fiammante, dentro quelle stanze, di quella Sparita, di foto ne raccolse a iosa.

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